Alessandro Vietti ha dedicato a Cenere, il nuovo romanzo di Elisa Emiliani, un pezzo molto interessante e approfondito sulla sua pagina facebook.
Ve lo riproponiamo qui di seguito.
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Il primo accostamento che mi è venuto d’istinto leggendo Cenere di Elisa Emiliani è stato (addirittura) con la seconda parte del film Full Metal Jacket di Stanley Kubrick. E perché mai, vi chiederete, visto che sembrano – anzi sono – due soggetti distanti anni luce? Ebbene la risposta è: per il tono dell’ambientazione. Nel film, il Vietnam rappresentato da Kubrick è rarefatto, quasi onirico, surreale, una trasposizione dechirichiana del sud-est asiatico, imprecisa e imprecisata (non a caso tutte le location furono in Inghilterra), in un territorio distillato, che si svincola dalle catene del realismo per approdare all’idea metafisica della guerra, e mi riferisco in particolare alle scene che si svolgono in ciò che resta della Beckton Gasworks di Beckton e che dovrebbero rappresentare le rovine di Huế. Ecco, l’ambientazione di Cenere mi ha evocato una modalità simile, ove la guerra viene sostituita dall’opposizione al regime e il Vietnam da una provincia romagnola anch’essa distillata, sublimata nei caratteri dei personaggi, che anche in questo caso assurge a teatro ideale della contrapposizione a tutti i regimi. A tale riguardo anche la (non) descrizione del regime corporativista contribuisce ad amplificarne l’effetto, sebbene in questo caso a mio avviso le conseguenze di questa scelta non sono solo e del tutto vantaggiose per la storia.
Faccio un passo indietro per chiarezza. La storia, in due parole (e senza spoiler), vede tre amiche adolescenti Ash, Anna e la Reba alle prese con un regime oppressivo contro il quale le circostanze della vita decidono di metterle. Per ora questo può essere sufficiente. La scelta, tuttavia, dell’autrice di non descrivere (mai) la sua distopia, se non per gli effetti che in fondo tutti i regimi oppressivi hanno, ovvero l’eliminazione fisica attraverso la reclusione e/o l’omicidio di tutti coloro che vi si oppongono, se da un lato restituisce a questa distopia il senso di ogni distopia, dall’altro, in un mondo editoriale così ricco (inflazionato?) di distopie, la mancanza di un approfondimento si sente, vuoi per la legittima curiosità del lettore, vuoi perché questa assenza a mio avviso finisce per contribuire a indebolire le motivazioni delle protagoniste.
Eppure le protagoniste ci sono e sono belle toste, e non lo sarebbero se l’autrice non le avesse dotate di carne e sangue (e droga e alcool) come si doveva. Questo, a mio avviso, è l’aspetto migliore del romanzo, il suo pregio più grande e sorprendente per maturità e profondità, perché la forza delle ragazze non diventa mai uno stereotipo e dunque non va mai a discapito del loro realismo e della loro vividezza. Insomma tre bei personaggi umani a tutto tondo, espressione di quella forza adolescenziale capace di opporsi al potere con tutta l’incoscienza e la sconsideratezza (e la disperazione) necessarie a innescare ogni rivoluzione. Quello che invece va un po’ a corrente alternata, a mio avviso, è la struttura narrativa della storia.
Se infatti il libro parte a bomba con un incipit fulminante e la prima ventina di pagine spacca proprio, subito dopo la strada si fa in salita, la storia deve prendere quota, ma a mio avviso il romanzo non scala le marce come dovrebbe e scende di giri. Da un lato “il gioco” ci mette troppo ad arrivare al dunque e quando ci arriva non corrisponde del tutto alle aspettative create, dall’altro la trama di Febe e dei “libri”, che promette di essere il momento clou del romanzo (almeno è questa l’impressione che ha dato a me), viene risolta anzitempo decisamente con un po’ troppa facilità e poi in qualche modo messa da parte. Insomma, se le dinamiche tra i personaggi sono davvero ben riuscite, è nel loro confronto con il regime che ho sentito qualche scricchiolio e la necessità di un approfondimento e di un maggiore lavoro su tempi e struttura. D’altro canto questo si nota anche in altri punti del romanzo, sparsi qua e là, dove ci sono situazioni che secondo me avrebbero meritato un po’ più di respiro, sia per liberarne la parte emotiva, sia per contribuire al consolidamento della sospensione dell’incredulità.
Per tirare le somme, ho trovato Cenere una bella sorpresa letteraria, in un singolare equilibrio tra freschezza adolescenziale e cupezza sociale, che trova la sua cifra nello scintillio dei personaggi e delle loro dinamiche (e in un finale forte e coraggioso); un libro complessivamente godibile che, se da un lato non può essere considerato per il suo contributo alla letteratura distopica, dall’altro ci offre un approccio originale e contemporaneo al tema della resistenza all’oppressore, ovvero per estensione all’impegno politico, e all’importanza delle energie che i giovani vi dovrebbero dedicare. In fondo significa combattere per il proprio futuro e il futuro è il loro.
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