Su Il Sole 24 Ore – Nòva, Mauro Garofalo ha dedicato una recensione a Avrai i miei occhi, di Nicoletta Vallorani, dandone una lettura davvero pregevole.
Ve la riproponiamo qui di seguito.
Avrai i miei occhi. Il “ritorno al futuro” di Nicoletta Vallorani
«Esisteremo solo in pezzi, dopo, su una terra levigata dalla distruzione.»
Avrai i miei occhi (Zona 42, euro 13,90) di Nicoletta Vallorani segna il ritorno alla fantascienza di quella che per molti anni è stata l’unica autrice ad aver vinto in Italia il premio Urania.
Futuro e donne, dunque. E quella coniugazione verbale, esisteremo. Oracolare, esiziale, connettiva. Noi. Ma tra quanto?
All’era dei cambiamenti climatici che devastano il pianeta – mentre persino il SuperBowl 2020 celebra l’avvento delle macchine ibride ed elettriche, in testa l’Hummer – la Milano di Vallorani prefigura zone e mappa quartieri della città simbolo di futuro di questi anni, e scardina i luoghi e i simboli – Torre Velasca, Duomo e i posti dove vivono i ricchi, le periferie – e ce li impianta sottopelle come una mappa al silicio, così tanto per non farci dimenticare che «Questo siamo: corpi incompleti in una città mutilata».
Sparsi ovunque corpi di donne.
Femmine uccise, corpi-clone, che Nigredo, vecchia indimenticata conoscenza (deckardiana) di altri romanzi dell’autrice, dovrà scoprire, Nigredo personaggio costruito da Vallorani quasi come un’ombra, una propaggine, l’allungo della lieve metropoli dimenticata.
Ma i corpi non sono che pezzi di un’idea più grande, appena gangli di raccordo, bambole da prendere per comporre un meccanismo forse utile forse solo estetizzante.
Stilisticamente Avrai i miei occhi di Vallorani è un tuffo negli anni Novanta, tempo di altrimondi possibili, quando il peso di un futuro immaginato era tutto lì sulla punta delle dita, la golden age del post-punk, dell’hardcore visivo in latex, e in questo l’ennesima avventura di Nigredo, questa epopea matura, restituisce alla letteratura di genere un’opera sul solco della grande tradizione: Jodorowski, Gibson, Moebius ancor di più, nella dinamica di tubi e metallo degli scorci urbani, dei portali che si aprono, delle facce appuntite che si intuiscono dei personaggi, quasi tutti soli, persi, delusi, sfibrati dall’esistenza.
Vallorani utilizza il tu per trascinarci nel suo mondo immaginario. Una scelta coraggiosa – viene in mente il Tabucchi di Tristano muore per l’uso della seconda persona singolare, che in letteratura non si usa molto, negli scambi epistolari, nei dialoghi ma nelle narrazioni la seconda persona è il corto circuito dell’io che passa dall’altra parte – Vallorani così affida a Olivia, vera protagonista del suo romanzo, il gioco di rimando e specchio in frantumi delle esistenze.
Si va avanti per amnesie, placque di biforcazione, linguaggio rough, androide. Viali e hacker che aiuteranno i due a tentare di sciogliere il labirinto di corpi, donne usate come oggetti. E chi ci voglia intravedere i rimandi al femminicidio, e il correlato odierno pensiero dell’azzeramento delle differenze, non avrà torto. Ma occhi per vedere.
…