Qualche tempo fa Fabio Malagnini ha intervistato per Pulp Libri Sam J. Miller, autore de La città dell’orca,.
Vi riproponiamo il pezzo sul nostro sito, ringraziando autore e testata per avercene concesso l’utilizzo.
Buona lettura!
Sam J. Miller è un giovane scrittore newyorkese, ex social worker, che utilizza il set del genere fantastico al completo – science fiction e fantasy – per sentirsi più libero di raccontare un mondo costantemente in metamorfosi tra speranza e catastrofe, solitudine e incontro, mutazione collettiva e cristalli di potere. Cioè un mondo simile a quello che riconosciamo in questo primo scorcio di Ventunesimo secolo, se appena guardiamo avanti di qualche decennio.
Con Blackfish City, ora pubblicato in Italia da Zona 42 (La città dell’Orca, recensito su Pulp), ha vinto il John W. Campbell Award come miglior romanzo e le nomination per i premi Nebula e Locus.
Lo incontriamo a Milano per Bookcity, al Covo della Ladra, una fantastica libreria che magari non ti aspetti a metà di via Padova. Dalla conferenza pubblica assieme all’editore italiano, Giorgio Raffaelli, e alla traduttrice Chiara Reali, la conversazione con Sam J. Miller prosegue poi via email.
Blackfish City ruota attorno a Qaanaaq, la città galleggiante, ci può dire da come è nata l’idea?
Un giorno mi è comparsa una donna, accompagnata da un’orca, ed esigeva che la sua storia venisse raccontata, molte cose che pensavo allora hanno cominciato a raggrupparsi attorno a questa donna e all’idea della città galleggiante. E un po’ alla volta i pezzi hanno cominciato a incastrarsi.
Nel romanzo l’immigrazione fa da sfondo a una revenge story: a Qaanaaq tutti sono migranti, dai ricchi Investitori che l’hanno fondata e che la controllano da dietro le quinte all’ultimo miserabile profugo. Ognuno ha alle spalle un passato e davanti una vita da ricominciare, che deve essere raccontata… Il romanzo è un po’ la somma di queste storie?
Sì, l’immigrazione è ciò che ha reso grande l’America, la sua colonna portante, per quando oggi sembri prevalere il razzismo e l’odio per l’Altro. Io scrivo per sentirmi meglio e per affrontare le cose che non sopporto, qui siamo in un futuro dove a causa della crisi climatica gli Stati Uniti non esistono più e chi è riuscito a scappare è trattato come oggi trattano i migranti. Ovviamente non me lo auguro, ma spero che la finzione possa aiutare a calarsi nei panni degli altri e a cambiare la nostra prospettiva.
Prima siamo catapultati in un futuro distopico, poi la storia si apre alla speranza oltre la catastrofe.
Non amo le distopie, non amo le storie che trasmettono solo disperazione. Se c’è una cosa che ho chiara nella testa è che le persone fanno cose terribili, ma fanno anche cose meravigliose. Mentre distruggiamo il mondo facciamo musica, cuciniamo ottimo cibo, mettiamo su famiglie e molte altre cose. È quello che abbiamo fatto finora e che continuiamo a fare.
Nel romanzo una malattia, il “frantumo”, porta le sue vittime a vivere i ricordi di persone sconosciute, frammentando la percezione del reale fino a disperdere la personalità e a ucciderle. Quando le storie individuali non si uniscono per formare una nuova narrazione collettiva possono diventare una malattia sociale?
Penso sia abbastanza immediato associare l’epidemia del frantumo nella finzione – un virus mortale e a trasmissione sessuale – a quella dell’HIV. Come gay sono cresciuto negli anni della sua massima diffusione, e ho capito che al governo non gliene fregava niente di quelle morti, che per superare quel momento dovevamo prenderci cura uno dell’altro. Non è solo una storia orribile, ma la storia di un gruppo di persone che ha trovato la forza di reagire e di creare qualcosa di nuovo anche nei rapporti umani.
I rapporti umani, le famiglie si scelgono, i protagonisti del romanzo si riconoscono invece in una grande famiglia biologica, sia pure piuttosto allargata. Come mai?
Suona un po’ come un’incongruenza, me ne sono accorto solo alla fine. Ma dopotutto non lo è: anche le famiglie naturali possano produrre rapporti importanti, che resistono nel tempo.
ll frantumo pone, indirettamente, anche il tema della memoria storica, che il romanzo affronta…
Quando parliamo di oppressione, delle cose che sono successe, guerre, povertà e altro, è facile sentirsi schiacciati dal peso di tutte le cose terribili che formano “la Storia” e che non sappiamo restituire con la scrittura. Se la affrontiamo invece attraverso la memoria o il ricordo è più facile padroneggiarla e andare avanti.
A Qaanaaq i politici non ci sono neppure più, il potere delega direttamente alle AI (Intelligenze Artificiali) i servizi cittadini…
Per quindici anni ho lavorato a New York come organizzatore, e quando mi rivolgevo a politici e amministratori per qualche nuova proposta mi sembrava di parlare con dei robot… sembravano già tutti programmati da qualche lobby, per cui in genere rispondevano come macchine “questo si può fare… oh no questo non si può fare…” In pratica sapevano già cosa potevano fare e cosa no. Che si tratti di AI o di politici in carne e ossa non cambia nulla, se la gente non decide di riprendere in mano il proprio futuro saranno sempre quelli con i soldi a decidere per tutti.
Di Blackfish City colpisce la granularità del world building, che l’azione svela un passo alla volta. Come ha disegnato Qaanaaq?
Mi sono limitato a prendere tutte le cose che più amo (e che più odio!) vivendo a New York City, e ho aggiunto alcune delle cose osservate in altre grandi città che ho avuto il privilegio di visitare in giro per il mondo, città come Bangkok, Delhi, London, Venice, per dire le prime che mi vengono in mente. Ho lavorato quindici anni come organizzatore di comunità e come attivista per portare a casa un cambiamento politico, e ho imparato alcune cose su come funziona una città, chi lavora per chi. E ho aggiunto balene assassine, orsi polari e… un tocco di folle futuro tecnologico!
Il suo modo di vedere New York City dopo la catastrofe climatica, mi ha ricordato in parte un autore di fantascienza come Kim Stanley Robinson… è un riferimento per il suo immaginario?
Lo ammiro molto, ma non ho letto moltissimo di lui. Forse proprio perché ci sono alcune cose in comune nei temi e nelle fascinazioni in comune, perché mi renderebbe nervoso se qualcuno fa qualcosa che voglio fare io e magari lo fa meglio.
Il capitalismo di Qaanaaq è soprattutto immobiliare, un’altra reminiscenza newyorkese?
Decisamente sì, a New York ho lavorato con i senza tetto e una cosa che ho imparato è che le città sono costruite per essere il più possibile care e inaccessibili. È un concetto molto semplice e volevo che le persone lo capissero, come l’ho capito io, dopo anni di lavoro nell’housing sociale. Siamo portati a credere che il problema dei senzatetto non ci riguardi, ma non è così.
Nell’inglese contemporaneo il singular they è usato per identificare gli individui di genere non binario, le persone che non si riconoscono come femmina o maschio. In italiano possiamo usare gli asterischi, ma non abbiamo un’espressione simile, cioè altrettanto accettata dalla grammatica, che mantenga pure la stessa carica politica. Lo dico perché uno dei protagonisti del romanzo, Soq, è genderfluid, non binario. Come lo ha costruito?
In un futuro stravolto dal cambiamento climatico, con la distruzione di interi habitat naturali e la perdita di milioni di specie animali, ho voluto immaginare un mondo dove qualcosa fosse anche cambiato per il meglio, in particolare si fosse superato il binarismo di genere e le persone potessero essere quello che vogliono. Per me è importante che esistano personaggi gay nella finzione perché i gay esistono nella realtà; allo stesso modo è importante che ci siano personaggi non binari perché le persone non binarie esistono. Ovviamente quando scrivo posso immaginare di essere chiunque, ma è bene confrontarsi con gli altri quando vuoi restituire l’esperienza di persone diverse da te. In questo caso il fatto di lavorare su un mondo fantastico è fondamentale, non potrei immaginare cosa prova un personaggio non binario in una storia realistica.
Domanda di rito: quanto c’è di te nei personaggi del romanzo?
Risposta di rito: credo ci sia un poco di me in tutti i personaggi, ma spero di assomigliare soprattutto alla donna dell’orca, che arriva e fa fuori decine di cattivi!
Tra le declinazioni del potere in Blackfish City c’è anche quello antropocentrico, di specie. I protagonisti, quando capiscono chi sono veramente, scoprono di possedere un legame psichico speciale con un animale. Personalmente mi ha ricordato la La bussola d’oro di Philip Pullman (Salani, 2015), ma anche il pensiero filosofico di Bruno Latour. Che magari non c’entrano affatto…
Philip Pullman c’entra sempre, ma io nella scrittura cerco soprattutto un modo economico per realizzare i miei desideri: mi piacerebbe tantissimo andare in giro con un orso polare ma non posso, quindi ficco un orso polare in un romanzo di fantascienza. Insomma questo libro è anche un modo per stare di più assieme agli animali.
Il suo ultimo romanzo, Destroy all monsters, si svolge in un luogo immaginario, che il protagonista chiama Darkside. Come è nato?
La storia è ispirata a uno dei miei fumetti preferiti di sempre, The Maxx. È la storia di Julie, un’assistente sociale che si preoccupa per un senzatetto in una città buia e piovosa, una dark rainy city. Ma è anche la storia vissuta da Max (che si ritiene un supereroe, ndr) in un mondo brillante e coloratissimo dove lui prova a salvare Julie. Questa idea – una storia che si svolge sul lato più crudo della nostra realtà, e un’altra in un mondo fantasy e selvaggio – mi ha sempre attirato e ho passato anni a immaginare come potesse funzionare.
Destroy all monsters è rivolto al pubblico “young adult”, che differenza ha fatto per lei?
Per me fa poca differenza, quando scrivo non distinguo tra giovani adulti e adulti-adulti. Il segreto è… che sono ancora in gran parte la stessa persona immatura di quando ero adolescente. Nelle storie classificate per young adult la trama deve guardare avanti e hai meno spazio per commenti e incisi, ma questo ha più a che fare con le norme del genere che con un pubblico specifico.
Ci sarà un seguito per Blackfish City?
No, nessun sequel formale. ma tutto il mio lavoro si svolge in un universo condiviso, creando tante piccole connessioni tra tutte le mie storie. Un mio racconto, Calved, è ambientato a Qaanaaq 20 anni prima di Blackfish City, e nel romanzo si accenna brevemente ad alcuni fatti raccontati in un altro racconto, Last Gods. Potrei scrivere qualcosa per esplorare gli eventi che hanno portato alla costruzione della città o durante le Guerre Climatiche… dove potrebbero comparire alcuni dei personaggi di Blackfish City.
Ted Chiang è un riferimento anche per molti scrittori. Lei ha seguito un workshop di creative writing con lui, cosa ha ricavato da questa esperienza?
Ted è uno scrittore e un insegnante straordinario, in realtà è straordinario, anche come persona, non conosco nessuno al mondo come lui. Averlo incontrato è la ragione per cui ho deciso di fare lo scrittore.
(leggi l’intervista su Pulp Libri.)