Vi proponiamo la splendida intervista che Nick Parisi ha realizzato con Tricia Sullivan. La traduzione dall’inglese è di Andrea Viscusi. L’intervista è stata pubblicata in origine sul blog Nocturnia. Ringraziamo Nick Parisi per avercene concesso l’utilizzo sul nostro sito.
Nick: Benvenuta su Nocturnia. Tricia Sullivan è un piacere averti qui. Come prima domanda ti chiedo di raccontarci dei tuoi inizi e del momento in cui hai deciso di diventare una scrittrice.
Tricia Sullivan: Ho iniziato a scrivere a sette anni, quindi sono sempre stata una scrittrice. Mi piacevano i cavalli, quindi tutte le mie storie parlavano di cavalli, finché a otto anni ho iniziato a leggere Tolkien. Allora ho iniziato a scrivere fantasy, e in seguito fantascienza. Ho scritto parecchio durante l’infanzia, ma verso i quattordici-quindici anni ho smesso con la narrativa e sono passata alle canzoni. Non ho ripreso la narrativa fino alla fine del college, e a quel punto mi risultava molto più difficile. Da piccola tutto usciva da sé senza nessuno sforzo.
N: Leggendo alcune cose scritte da te mi sembra di notare una certa influenza di argomenti e di temi cyberpunk. Cosa ti piace e cosa invece non apprezzi di questo genere letterario e quanto è effettivamente presente all’interno della tua narrativa.
TS: Non ho avuto modo di leggere cyberpunk quando andava di moda. Ho provato a leggere Neuromante perchè me lo aveva consigliato il mio ragazzo ma l’ho mollato a metà. Non ho letto il romanzo Folli di Pat Cadigan fino a quando ho affrontato un argomento simile nel mio secondo romanzo, Someone to Watch Over Me. Mi sono vergognata quando ho scoperto che aveva scritto così bene delle stesse cose anni prima di me e non lo sapevo nemmeno.
Ma la mia spinta a scrivere non proviene dai libri letti e nemmeno dalla tecnologia. Nel romanzo Someone to Watch Over Me esiste un chip che permette di percepire il mondo come se fossero nel corpo di un’altra persona. Questa idea mi venne assistendo a uno spettacolo teatrale chiamato Someone Who’ll Watch Over Me, sentendo la profonda connessione empatica tra gli attori e il pubblico. Nella mia storia, il chip è soltanto uno strumento per rendere tangibile quell’empatia. Non mi interessa la tecnologia di per sé, e penso che questo sia ciò che mi distingue da buona parte degli autori cyberpunk.
N: Cyberpunk a parte, quali sono state le tue maggiori influenze letterarie , quali sono stati gli scrittorie le opere che ti hanno maggiormente influenzato come lettrice prima che come scrittrice ? Naturalmente puoi citare anche film, serie televisive, comics, e tutto quello che ti viene in mente.
TS: Ho già citato Tolkien. Ho letto la sua trilogia innumerevoli volte, e ho acquistato la prima edizione del Silmarillon appena uscì anche se avevo appena nove anni. Ho anche provato a imparare la lingua elfica. In seguito Anne McCaffrey è l’autrice che ho letto di più tra i dieci e i venti anni. Leggevo e rileggevo i suoi libri fino a quando cadevano a pezzi. Quando amo un libro, lo riprendo di continuo.
Sono crescita con Star Trek, che mi è servito a capire la fantascienza. Ho letto qualcosa di Philip K. Dick durante l’adolescenza, e sono rimasta molto impressionata da Le guide del tramonto di Arthur C. Clarke. Ma non sono mai stata una grande lettrice di fantascienza perché spesso mi lasciava fredda, mi piacevano soprattutto le idee che conteneva.
In college ho letto molto, ma non ricordo bene cosa. Un amico mi prestò I reietti dell’altro pianeta e La mano sinistra delle tenebre di Ursula K. LeGuin, e mi è piaciuto The Folk of the Air di Peter S. Beagle.
Intorno ai venti anni ho letto parecchia “letteratura seria”, probabilmente mi dimenticherò qualche titolo. Mi affascinavano gli spettacoli di Samuel Beckett, in particolare Finale di partita, e uno dei miei libri preferiti all’epoca era Almanac of the Dead di Leslie Marmon Silko. Impazzivo anche per Una pinta d’inchiostro irlandese e Il terzo poliziotto di Flann O’Brien. Un altro mondo di James Baldwin è un altro titolo che mi è rimasto impresso. Ho letto due volte L’arcobaleno della gravità ma l’unica cosa che ricordo sono le caramelle e la lampadina immortale. Tutto questo era prima di internet, e alcuni di questi libri li ho trovati vagando in biblioteca e scegliendoli a caso. Potrei aver preso Un altro mondo pensando che fosse qualcosa tipo Narnia, quando invece parla del razzismo in America.
N: Sempre a proposito delle tue influenze. Mi sembra che abbia spesso dichiarato che nel corso della tua vita ci sono state due cose che ti hanno sempre condizionato: la musica e le arti marziali. Ce la spieghi questa affermazione?
TS: Sono molto sensibile ai suoni e la musica mi ha sempre influenzato profondamente. Non ho il talento necessario per suonare o cantare, ma ci ho provato comunque. I miei sforzi di comporre musica sono stati insoliti e imbarazzanti, ma mi hanno insegnato come impostare il lavoro. Molti autori iniziano scrivendo racconti, io invece ho iniziato scrivendo canzoni e poi sono passata ai romanzi. Per scrivere canzoni usavo tutte le tecniche che mi servivano per scrivere fantascienza, anche se in un mezzo diverso. Lavoravo con un registratore multitraccia, suonavo io stessa gli strumenti e portavo il risultato al mio corso di musica al Bard College. Il mio maestro Benjamin Boretz lasciava sviluppare agli studenti il loro metodo, quindi ero libera di sperimentare. Questo tipo di libertà si è poi trasferita al mio modo di scrivere
Riguardo le arti marziali, descriverei mio padre come un femminista secondo gli standard dell’epoca, e io sono cresciuta come un maschiaccio. Entrambi i miei genitori mi incoraggiavano e mi trattavano da pari, tranne che per un aspetto: erano troppo protettivi, soprattutto mio padre. Pensavo che se avessi imparato le arti marziali avrei dimostrato di potermi proteggere da sola, quindi ho iniziato ad allenarmi a tredici anni. La cosa finì male quando venni espulsa dalla palestra per questioni inutili come il mio rifiuto di allenarmi con “le ragazze”. Venni anche molestata da un maestro quarantacinquenne durante un viaggio in Giappone, ma non lo dissi a nessuno, forse perché non volevo accettare la realtà: pensavo di essere lì per diventare un guerriero, mentre il maestro riteneva che fossi solo carne fresca.
Le arti marziali dovevano essere una via verso la libertà fisica e spirituale, ma si trattava di autoritarismo e obbedienza. Sento ancora l’anelito di diventare quel “guerriero”, e ho continuato a cercare posti per addestrarmi. Molti anni dopo ho incontrato il mio partner (Steve Morris) in una classe che insegnava ai praticanti di karate che volevano imparare a combattere. Questo incontro ha cambiato tutto il mio modo di pensare riguardo alla libertà e al potere. Ha cambiato totalmente la mia vita, molto tempo prima che Steve e io diventassimo una coppia. Ho imparato l’impegno fisico e mentale e la concentrazione, e mi sono allontanata dalla “fantasia guerriera” procedendo verso un approccio scientifico all’allenamento. Da allora abbiamo fatto tre bambini insieme, e continuo a gestire il sito web di Steve, che è tutto sull’allenamento al combattimento. Così le arti marziali sono state un tema della mia vita, direttamente e indirettamente. Ho anche scritto un romanzo su una giovane donna combattente, intitolato Shadowboxer.
N: Nel 1995 pubblichi Lethe, il tuo primo romanzo. Eri molto giovane ed il romanzo ha ottenuto l’interesse ed il plauso di scrittori famosi come David Brin e Ian McDonald ed anche l’attenzione di molti critici. A distanza di anni cosa ricordi di quel primo successo e quanto ti ha ispirato per il prosieguo della tua carriera?
TS: Fu uno shock riuscire a vendere quel libro così facilmente, avendo soltanto tre capitoli e una sinossi. Ricordo che in quel periodo ero molto impegnata con il lavoro in una scuola di New York e dovevo scrivere 5000 parole ogni fine settimana per poter mantenere la scadenza. Non avevo mai scritto un romanzo prima e imparavo strada facendo. Mi sentivo come a saltare giù da un aereo, era eccitante ma anche spaventoso. Mi dicevo che se fossi riuscita a finire un romanzo sarei stata in qualche modo “completa” e avrei potuto morire soddisfatta! Non avrei mai immaginato di poter scrivere un altro libro dopo di quello, figuriamoci tanti altri libri.
N: In Lethe affronti un tema che tornerà spesso all’interno della tua opera, quello di una società futura distopica e disfunzionale popolata da personaggi ancora più disfunzionali. Cosa ti affascina di questo argomento?
TS: Ora che me lo fai notare, forse sono io che vedo tutto messo male! Lethe è una storia post-apocalittica uscita prima che diventasse di moda (anche se ce ne sono sempre state molte nella fantascienza distopica). Non riuscivo proprio a immaginare un futuro dove fosse tutto luminoso, brillante ed equo. La premessa centrale è quella di un gruppo di bambini del terzo mondo che sono stati sfruttati dai potenti in tutti i modi peggiori, ma trovano poi il modo di ribaltare la situazione. Lo sfruttamento dei bambini poveri era davanti ai miei occhi, non dovevo nemmeno immaginarlo. Vedevo anche l’umanità che iniziava a usare tecnologie per le quali non siamo ancora abbastanza maturi. La distruzione dell’ambiente, l’ingegneria genetica, il collasso della società… non credevo che tutto sarebbe successe proprio in quel modo, ma non riuscivo a immaginare che l’umanità potesse continuare come aveva sempre fatto. Quando non hai rispetto della Natura, prima poi lei reagisce. Ho sempre pensato che un crollo dell’ordine stabilito nel Ventesimo secolo sarebbe stato inevitabile. Non serve essere dei visionari per immaginarlo.
N: Mi sembra di aver letto da qualche parte che l’idea principale di Lethe sia nata ai tempi del College osservando il comportamento dei tuoi compagni di College. È vero questo particolare?
TS: Sì e no. L’idea mi è venuta al college, non esattamente per via degli altri studenti. L’idea era semplicemente che crescendo si impazzisce. Non c’è scelta. Perdiamo in chiarezza e sanità, e non le possiamo più riacquisire. Ho recuperato la stessa idea in Lightborn pensando di poterla migliorare, ma non sono sicura di esserci riuscita. Da ventenne che stava per lanciarsi nel mondo degli adulti e sopravviverci, sentivo che stavo già impazzendo. Che non ero più me stessa già da quando avevo dodici anni, e non lo sarei più stata.
N: Dreaming in Smoke parla di colonizzazione di un mondo alieno (un mondo alieno che si dimostra diverso rispetto alle aspettative iniziali della razza umana). In quel romanzo poi l’aspetto onirico è molto presente ai fini della trama. Come mai questo cambio di tematiche ? Cosa li ha generati?
TS: Ho pensato che qualunque tecnologia futura avanzata dovrebbe avere un qualche tipo di interfaccia biologica, un meccanismo con un rapporto più intimo di una tastiera. Quindi come potremmo comunicare con un AI che non è umana e non ha un corpo come il nostro? I sogni sono uno strumento che usiamo per processare il mondo, il nostro cervello prova a organizzare e capire le cose che abbiamo sperimentato durante la giornata. Ho usato il sogno come un’interfaccia per comunicare, inventare, scoprire e affrontare problemi a un livello di profonda connessione con l’IA, come se la nostra coscienza potesse nuotare immersa nei dati.
All’inizio della storia, i coloni su questo pianeta usano la tecnologia basata sui sogni, poi si scopre che esiste anche un’intelligenza aliena con cui devono confrontarsi, anche se la natura di questa intelligenza non è subito evidente perché gli alieni non somigliano a niente che conosciamo. E come si comunica con un alieno del genere? Se è davvero, completamente alieno, non dovrebbe essere possibile. Non ci sono punti di riferimento condivisi. Anche a scriverne si incontra lo stesso problema, non è fattibile. Ma bisogna farlo comunque.
È qui che entra in gioco la musica. La musica è comunicazione non verbale, è un collegamento empatico diretto, un modo per esprimer l’inesprimibile. Quindi la scrittura è volutamente musicale nella struttura (per quanto mi fosse possibile) e si basa su impressioni e allusioni. Ci sono molte citazioni musicali, ho cercato di forzare l’idea di cosa è una struttura narrativa.
N: Dreaming in Smoke ha ottenuto un premio importante come il Clarke Award. Che importanza hanno i premi nella vita e nella carriera di uno scrittore? Che importanza ha avuto quel premio per te?
TS: All’epoca fu una sorpresa totale, soprattutto perché non ero molto contenta del mio lavoro ed erano stati in pochi a notare il libro. Non sapevo niente del premio fino a quando l’ho vinto, ma in retrospettiva è stato un momento importante perché il mio nome iniziò a essere riconosciuto nel Regnom Unito. Quando uscì il mio romanzo successivo venne preso sul serio. Non sono sicura che sarei riuscita a pubblicare Maul se Dreaming in Smoke non avesse vinto il Clarke.
Negli anni successivi ho avuti alcuni momenti di scoraggiamento quando la scrittura non è andata bene, e niente di quello che scrivevo sembrava avere effetto. Più spesso mi sono sentita un Signor Nessuno di quanto non mi sia sentita parte della fantascienza, ma aver vinto il Clarke mi ricorda che ho fatto una mia piccola parte.
N: Nel 2003 esce un altro romanzo importante e cioè Maul (Selezione naturale in italiano). Con quest’opera torni a dipingere un futuro distopico (nello specifico un mondo in cui il sesso maschile si sta estinguendo). Volendo trovare una costante di tutta la tua opera possiamo dire che il leit motiv trasversale di tutte le tue opere sia l’attenzione verso i cambiamenti estremi della cultura ed i tentativi di adattarsi ad essi? Ti ci ritrovi in questa definizione?
TS: Non è tanto la cultura che cambia e il tentativo di adattarsi a questa, piuttosto il contrario. Inserisco situazioni estreme nelle mie storie per rendere le idee più drammatiche, per spingerle al massimo, e per farlo non posso parlare della vita quotidiana. Quindi i cambiamenti culturali di cui parlo derivano dal contrasto necessario per rendere un’idea. Scrivere un libro è come lavorare con un acceleratore di particelle: prendo un paio di idee, le spingo a velocità estrema e le faccio scontrare, per vedere cosa succede.
Se c’è un leit motiv nelle mie storie, credo che sia la consapevolezza. Non lo faccio apposta, succede così e basta.
N: Vorrei soffermarmi un istante anche sui tuoi personaggi. I tuoi protagonisti (penso ad esempio ai personaggi di Maul) compiono gesti estremi, sembrano non avere un domani e se ne rendono perfettamente conto. Che importanza hanno per te i personaggi ai fini delle tue storie ? e come li vivi?
TS: In Maul tutti i personaggi vivono in una simulazione. Nessuno di loro è reale (o forse sì?) e si comportano come personaggi di un videogame, e non capita spesso di vedere simili personaggi ppreoccuparsi di perdere il lavoro o picchiare la macchina, no? Anche se alla fine del romanzo Sun ha un momento di rivelazione e capisce che nel mondo le cose sono confuse, deludenti e piatte, e che va bene così. Quindi in un certo senso, abbandona gli ideali e torna alla realtà.
Non so mai come parlare dei personaggi e nemmeno cosa pensare di loro. Di solito mi sforzo di sentire ciò che sentono, di mettermi nei loro panni. A volte serve parecchio lavoro e qualche forzatura per entrare nel personaggio, ma altre sono più fortunata, e il personaggio mi dice cosa fare. In Occupy Me c’è una veterinaria, che avrebbe dovuto essere un personaggio secondario, ma si è presa il libro e se lo è portato dietro, e io non ho potuto fare niente. Amo quando succede questo.
N: Maul finora è stata la tua unica opera tradotta in italiano. Cosa ne pensi dell’accoglienza del pubblico italiano?
TS: È stato fantastico. Il mio editore, Zona 42, mi ha portato a Milano e si è preoccupato di me e della mia famiglia. Sono rimasta strabiliata dall’entusiasmo e dal calore dei lettori che ho incontrato.
Sono sincera: spesso quando sono invitata agli eventi in nel Regno Unito, faccio una lettura o un discorso in stanze semivuote. Può essere demoralizzante e anche imbarazzante. Ma in Italia c’era una folla enorme per il mio discorso, molte persone compravano il libro, ed è stato un successo più grande di quanto abbia mai visto nel Regno Unito o negli USA. Mi piacerebbe tanto poter leggere la traduzione di Chiara Reali.

N: Nel 2016 sei venuta in Italia per partecipare alla manifestazione StraniMondi. Tracciaci un bilancio di questa esperienza.
TS: Non riesco a fare un bilancio, perché è stato tutto positivo!
Ho imparato che esiste una vivida scena sf/fantasy/horror in Italia, ma che è molto piccola e dipende dagli sforzi di un piccolo gruppo di persone organizzare gli eventi che portino insieme lettori e addetti ai lavori. Ho parlato con alcuni autori italiani che stanno tentando di pubblicare in inglese, che è molto difficile ma non impossibile. Ho conosciuto alcuni traduttori e studiosi e abbiamo parlato a fondo di letteratura, mi hanno insegnato qualcosa della letteratura italiana.
Il grande Maurizio Manzieri era presente, è stato un grande piacere parlare con lui e ascoltare le sue storie. Sono stata davvero fortunata ad avere Chiara Reali a tradurre per me durante gli incontri, perché mi capisce perfettamente. C’era tanta energia positiva, tanta familiarità e speranza e interesse per i libri, e quelli di Zona 42 si sono occupati di noi con grande ospitalità.
Quindi è difficile fare un bilancio, non ci sono aspetti negativi. O forse, a pensarci bene… un aspetto negativo è che il posto era molto piccolo per la quantità di presenti, ma questo significa che l’evento brulicava di appassionati, e come potrebbe essere un male? L’unica cosa davvero brutta è che non parlo italiano, quindi mi sono persa molte conversazioni quando Chiara non era con me. Avrei dovuto imparare l’italiano prima!
N: La tua opera più recente è Occupy Me che sta abbastanza facendo parlare di sè gli appassionati. Racconta qualcosa di questo libro a quelle persone che ancora non l’hanno letto.
TS: Parla di un angelo di nome Pearl, le cui ali si spiegano in un’altra dimensione. Si sveglia in un frigorifero in una discarica, sapendo che qualcosa le è stato rubato, ma non ricorda altro. Pearl deve scoprire da sola la sua missione, che ha a che fare con un petroliere in punto di morte e un dottore di un piccolo Paese africano che cerca di vendere una strana valigetta.
Occupy Me è il libro più assurdo che abbia mai scritto, e anche il più compiuto. Ci ho davvero messo tutta me stessa. Niente nel libro è quello che sembra all’inizio.
N: Una curiosità personale: con lo pseudonimo Valery Leith hai scritto anche delle opere fantasy. Come mai la scelta di utilizzare uno pseudonimo?
TS: Mi è sempre piaciuta l’idea degli pseudonimi, delle identità alternative. Ho scritto il primo libro della serie per divertimento, e volevo la completa libertà di essere ridicola quanto mi pareva: lo pseudonimo me lo permetteva. Poi un editore ha acquistato l’intera trilogia per una bella somma. Hanno accettato lo pseudonimo ma per una ragione diversa: la fantascienza non vende bene, e la mia fantascienza vendeva ancora peggio, quindi era importante che i librai non scoprissero che avevo scritto quei libri, altrimenti avrebbero pensato di non poterli vendere.
Ironicamente, anche con lo pseudonimo i miei libri fantasy hanno venduto peggio di quelli di fantascienza, il che è molto divertente. Cioè, è divertente adesso, certo non lo fu allora.
N: Sei una scrittrice americana che però da anni vive in Inghilterra. Noti delle differenze nel modo di fare editoria e nelle reazioni del pubblico dei due paesi?
TS: Sono dieci anni che non vendo un libro negli Stati Uniti. Credo che i lettori americani non sappiano nemmeno che i miei libri esistono, non sono abbastanza “commerciali” per un editore americano. Peggio per loro, non mi interessa più. Fin dall’inizio il Regno Unito mi ha accolto come autrice. Non che riesca a vivere scrivendo narrativa, ma finora sono riuscita a scrivere e pubblicare quello che volevo.
N: Quali tra i tuoi colleghi scrittori segui con maggiore attenzione ed interesse?
TS: Non leggo molta narrativa ultimamente. Sto studiando astrofisica, e a fine giornata la mia mente è stanca. Nonostante questo, il miglior libro di fantascienza che ho letto di recente è Rosewater di Tade Thompson. Parla di un’invasione aliena in Nigeria, Thompson è un autore giovane ma non si direbbe dall’abilità con cui usa gli strumenti della sf. Consiglio di provarlo.
N: Progetti futuri: di cosa ti stai occupando e cosa ci dobbiamo aspettare nel prossimo futuro da Tricia Sullivan?
TS: Ho scritto un romanzo sf/poliziesco ambientato in una Londra del futuro prossimo, Sweet Dreams. Torno al tema dei sogni, parlando di una giovane terapista che aiuta le persone modellando i loro sogni. Rimane invischiata tra omicidi e caos tecnologico. È leggero, ma è stato divertente scriverlo.
N: Bene Tricia, è tutto. Nel ringraziarti ancora una volta per la tua gentilezza e disponibilità ti rivolgo la classica domanda finale di Nocturnia: esiste una domanda alla quale avresti risposto volentieri e che io invece non ti ho rivolto?
TS: Sono a posto, grazie Nick. Grazie davvero per avermi dato spazio. Ciao!
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