Romina Braggion intervista Nicoletta Vallorani

Qui di seguito vi proponiamo l’intervista che Romina Braggion ha realizzato con Nicoletta Vallorani in occasione dell’uscita di Avrai i miei occhi. L’intervista è stata pubblicata in origine sul Diario di ErreBi.
Ringraziamo Romina Braggion per avercene concesso l’utilizzo sul nostro sito.


Romina Braggion: Ciao Nicoletta, benvenuta nel mio blog “Diario di ErreBi”, sono davvero lieta di ospitarti.
Il 27 gennaio 2020 uscirà il tuo libro “Avrai i miei occhi” per la casa editrice Zona42. Questa notizia ha catalizzato la mia attenzione e decidere di intervistarti è stata la naturale conseguenza del mio apprezzamento per le tue opere.

Anche con te inizio ponendo la domanda consueta nelle mie interviste, perché una persona dovrebbe leggere il tuo ultimo romanzo?

Nicoletta Vallorani: Fa bene al vivere. È abbastanza?

RB: Vorrei dirti cosa mi è capitato stilando le domande per te. Conosco a grandi linee la tua vita letteraria. Ho voluto approfondire la tua conoscenza per tentare di porti domande poco meno che banali.
Tieni conto che già apprezzo il tuo stile avendoti incontrata in Materia Oscura con il racconto Céline e in Robot 82 con il racconto Cuori d’acqua. Sto leggendo tuoi interventi nei quattro numeri di Un’Ala e ho nel cassetto da leggere Le madri cattive, il cui tema è l’infanticidio.
Però, più mi addentravo nelle notizie su di te e più mi trovavo persa in un mosaico di avvenimenti forti come la bava di un ragno, non solo letterari ma anche personali.  Ho tentato di trovare il filo conduttore per arrivare al centro e ho notato il ripetersi di alcuni vocaboli: Milano, femminismo, noir, fantascienza, acqua, impegno, giovinezza (intesa come prime fasi della vita), donne, alieno/mutante/diverso.
Sono riuscita a trovare alcune delle parole giuste per avvicinarmi a te?

NV: Era molto difficile, ma sì, secondo me ci sei riuscita. Gli esseri umani sono creature complesse e le donne, tendenzialmente, navigano nella complessità come in mare aperto. Pensano in più direzioni, le donne, e il più delle volte arrivano a territori non perlustrati, senza tentare di conquistarli, perché di solito hanno rispetto della differenza, per averla sperimentata, spesso nel modo peggiore. Chi conquista, di norma, è un uomo. Le donne, di solito, imparano, che è il genere di acquisizione più efemerica e utile (e prima che qualcuno lo dica: sì, sono consapevole del fatto che ci sono eccezioni, e ben vengano, ma c’è anche una storia, che insegna qualcosa su quel che è più frequente).
E tornando a me: sì Milano, noir, fantascienza. Acqua sì: è la sostanza in cui si muovono i miei pensieri, è il luogo dove sono nata. Impegno: senza dubbio sì, perché comunque sia, viviamo in una comunità, e occuparsene è una dimensione politica irrinunciabile. Io non mi lamento: lavoro per migliorare le cose. Che poi io ci riesca è un altro paio di maniche. Ma provo con l’unico strumento che ho, ovvero la scrittura. Io scrivo, e scrivendo il mondo lo cambio. Poi magari non si vede, ma credo che per ogni scrittore vero sia così.

RB: Torno al tuo romanzo.  Se ho ben compreso si tratta di una distopia noir. Sottolineo, per chi non lo sapesse, la tua capacità di mescolare i generi ma non è questo che ora mi incuriosisce. Vorrei sapere perché hai deciso di far morire le donne. Oppure, se si rivelano altro, perché hai scelto il genere femminile come punto di partenza per questo romanzo? Ti confesso che la sinossi sul sito di Zona42 mi ha incuriosita: “Donne? Persone? O piuttosto cavie, cloni, cose?

NV: Le donne muoiono, tante, anche nel mondo reale, e in modo insensato e spesso solo perché il nostro è un mondo di uomini. Le donne che muoiono nel mio romanzo sono cavie (e questo non toglie nulla alla tragicità della loro morte), ma non vorrei spiegar troppo, per non guastare il piacere della lettura. Quello che volevo fare era ed è un ragionamento su come sia facile trasformare il corpo di una donna in un oggetto, e dunque derubricare uno stupro, una violenza, un omicidio a qualcosa di meno (o molto di meno) della distruzione di una cosa. C’è, nella storia che racconto, tanto Barbablù, ma anche tanta Antigone, Virginia Woolf, Francesca Woodman. E tanta comunità. Ed è vero che le donne muoiono, nel mio romanzo, ma è anche vero che Olivia è protagonista della storia, ed è una donna che amo infinitamente. E poi c’è Ariel col suo vestito di tulle, e ci sono molte altre presenze femminili importanti. Nigredo, il detective, attraversa questo mondo di donne con un animo anche femminile, come fosse anche lui un soggetto violato.

RB: Il tuo romanzo vincitore del Premio Urania nel ‘92 è ambientato a Milano, così come altri racconti e romanzi, questo compreso. Augurandoti la stessa fortuna di Il cuore finto di DR, ti chiedo: qual è il motivo della tua preferenza per la città meneghina?

NV: Ci vivo da trent’anni. Come molte metropoli tardo-novecentesche,  ha ancora il fascino di una sua identità determinata, della quale è possibile immaginare uno sviluppo futuro, altrettanto specifico. È riconoscibile. Non è ancora un non-luogo.

RB: Nigredo è il protagonista di questo romanzo e anche del racconto Il catalogo delle vergini. È il personaggio di altri racconti e romanzi? Cosa rappresenta lui per te e quale messaggio gli hai consegnato per trasmetterlo alle tue lettrici/tori di Avrai i miei occhi?

NV: Nigredo è anche il protagonista di Eva, il romanzo che era uscito con Einaudi – Stile Libero, nel momento felice in cui la redazione contava sulla direzione di Severino Cesari e sulla collaborazione di Luigi Bernardi. Quegli anni sono finiti, da tempo, e quando ho mandato la prima versione del romanzo, qualche anno fa e per correttezza visto che Eva era uscito con loro, mi è stato risposto via sms (alla mia agenzia, cioè) che Stile Libero non è interessato alle distopie.
Dunque il romanzo non è stato letto. Però secondo me Nigredo e Milano si meritavano un’altra vita. E Olivia, che compariva in Eva come personaggio secondario, si meritava un ruolo più importante. Poi sono aumentati i femminicidi. Poi ho pensato che potevo passare a una stesura successiva e a un’altra dopo ancora. Poi mi sono innamorata di Zona 42, e loro hanno preso il romanzo. E lì ho trovato, come editor, Chiara Reali, una professionista coi controfiocchi. Insomma, è un bel finale. Che finale non è, perché sono certa che Nigredo tornerà a vivere.

RB: Nell’intervista del 2018 su Minuti Contati, Spartaco ti chiede quali sono i tuoi progetti per il futuro. Tu gli rispondi “Vendere i due romanzi di fantascienza che non sto riuscendo a vendere (e in alcuni casi neanche a far leggere) agli editori”. Possiamo ringraziare i barbuti di Zona 42 per questo tuo ultimo lavoro?

NV: Sì, e non perché mi hanno presa, ma perché sono bravi. Vale la pena di leggere tutto quello che pubblicano, perché c’è amore e rigore in ogni cosa.
È un’esperienza rarissima nell’editoria di oggi.

RB: Esco dal tuo ultimo lavoro. Sto leggendo il quarto numero di Un’Ala, nello specifico gli atti della seconda edizione del Convegno femminile del Fantastico e Fantascienza che narrano i tuoi interventi.
Ho visto tutto il video della tua partecipazione, insieme a Serena Guarracino, Giuliana Misserville, presso Inquiete 2019.
Ti seguo sul tuo profilo Facebook e su qualche blog con cui collabori.
La tua presenza è pesante come può esserlo un aratro che crea un solco profondo. Essere persone che emergono e che lasciano un segno comporta una serie di vantaggi e svantaggi.
Quali sono le opportunità che hai colto e qual è il prezzo che hai pagato, se esiste, generati dal tuo “stare nel mondo”?

NV: Non saprei: non mi sono mai arresa di fronte alle difficoltà. Ho puntato sulle competenze (mie) più che sulla seduzione (dei potenti).
Ho preso molte porte in faccia, ma direi che a chiuderle non sempre sono stati gli uomini. Certe donne, quando arrivano a una posizione di minima responsabilità, finiscono per riprodurre, tristemente e a me pare senza troppo garbo, comportamenti maschili. A me interessa altro.
Il prezzo che ho pagato io, non diversamente da altre donne, è il rischio della rimozione, la pena dell’invisibilità. Il processo è questo: in ogni comunità, chi diverge può subire due sorti: può essere celebrato come eccezione e dunque diventare un eroe, oppure essere rimosso, fisicamente e simbolicamente.
In molti ambienti le donne sono invisibili, come Ruth e Althea Parsons  in The Women Men Don’t See, di James Tiptree Jr.

RB: Proprio nel quarto numero di Un’Ala, Luciana Strippoli, citando Virginia Woolf che si riferisce al suo libro Una stanza tutta per sé, afferma che “…ora [1985] la massima gloria per una donna sarebbe riuscire a far parlare di sé… attraverso le sue opere…
Nel blog Le parole e le cose, il 29 maggio 2019, hai ricordato l’importanza di mantenere le tracce, citando il volumetto Mappe sulla pelle che si propone di conservare e tramandare la memoria di alcune donne famose, emblematiche di tante oserei dire.
Quest’ultima mi sembra un’urgenza sentita da molte donne oggi, me compresa.
Quale sarà il passo successivo? Esistere come riteniamo più adatto a noi? Ci arriveremo mai? Mi sembra di voler atterrare in uno dei mondi utopici di Le Guin…

NV: Il passo successivo è essere persone in un mondo di persone. È interessante come scrittrici e scrittori di fs tra i più interessanti di oggi continuino a tirar fuori ipotesi legate alla creazione di una rete tra organismi e natura, riprendano in mano la questione del rispetto, immaginino una libertà di matrice anarco-pacifista: si può essere liberi nel mutuo rispetto della libertà degli altri. È una componente che trovi in Nora K. Jemisin come in Sam J. Miller. Non so: qualcosa vorrà dire. Non è solo questione di rispettare il proprio cane, ma di capire che ogni cosa vive, persino il pianeta, e non possiamo abusare del luogo che abitiamo e di chi, con noi, lo abita.

RB: Termino con l’altra domanda di rito: quale suggerimento vuoi dare a chi pensa di intraprendere l’hobby della scrittura e magari aspira anche a farsi leggere da qualcuno oltre che da parenti e amici? Con te mi permetto di pensare alle donne per il tuo suggerimento.

NV: Non ci sono suggerimenti. Chi sente in sé il bisogno di scrivere lo farà comunque, indipendentemente dai miei consigli. Le donne in particolare spesso usano la scrittura come una compensazione del silenzio indotto, della condanna a non essere ascoltate.
Però ecco, una cosa la posso dire: la scrittura è sempre una terapia, ma non è necessariamente pubblicabile. Non si scrive solo per essere pubblicati, ma se si vuole essere pubblicati, bisogna essere consapevoli che una pubblicazione è il pezzo di un dialogo, e il dialogo funziona quando il codice è condiviso. In altri termini: non bisogna scrivere mai fantascienza se si è letto poco o nulla di fantascienza. E lo stesso vale per altri generi.
Il lettore va rispettato, anche quando ci si sente un maledetto genio.
Ci vuole umiltà, ecco. Credo che avere umiltà sia un ottimo consiglio.

Grazie mille, Nicoletta, per la tua disponibilità e in bocca al lupo per il tuo nuovo libro.

Pubblicato in Avrai i miei occhi.