Questo dialogo tra Andrea Viscusi e Alessandro Vietti è comparso in origine su Andromeda, Rivista di fantascienza, a cura di Alessandro Iascy. Ringraziamo Andromeda per avercene permesso la pubblicazione.
L’idea, partita da Alessandro Iascy, prevedeva una specie di doppia intervista: AV vs. AV, Vietti che intervista Viscusi, Viscusi che intervista Vietti. E, a parte la curiosa coincidenza delle iniziali, già sembrava una cosa interessante. Poi però, non contenti, ci è venuto in mente che avrebbe potuto essere ancora più interessante fare qualcosa di un po’ diverso dal solito, una sorta di discussione a ruota libera, come al pub, davanti a una birra, o in macchina, durante un lungo viaggio, un botta e risposta, per vedere dove di volta in volta si andava a parare. Anche se forse siamo usciti un po’ dal seminato o siamo andati lunghi, o storti, o alti, o abbiamo sbagliato strada e siamo tornati indietro, a nostro avviso è risultato qualcosa di effettivamente più originale della consueta intervista e, anche solo per questo, stimolante. Ecco, insomma, il resoconto di questo piccolo nostro viaggio insieme. Speriamo piaccia anche a voi, come è piaciuto a noi.
VIETTI: Quando ci è venuta in mente questa cosa del dialogo, fin dal principio ci è risultato chiaro che il punto cruciale era capire da che punto volevamo partire. Poi ho osservato alcune curiose similitudini tra noi due e la partenza è venuta automatica. Mi spiego. Avendo letto alcune cose tue, penso, oltre a Dimenticami Trovami Sognami, anche per esempio a Spore e a Placebo, ho avuto l’impressione che la cifra dei tuoi temi sia il rapporto dell’uomo con alcuni aspetti primordiali dell’esistenza umana: la realizzazione di sé, il rapporto con quello che saremo, la morte, il senso della nostra presenza nell’universo… L’osservazione della similitudine nasce dal fatto che questo tipo di temi erano quelli che erano più cari anche a me nei primi anni della mia frequentazione con la scrittura, ovvero più o meno alla tua età (non dobbiamo dimenticare che ci separano quindici anni). Sia Cyberworld che Il codice dell’invasore, che scrissi più o meno alla tua età, facevano parte di quel focus. Proseguendo (evolvendo? maturando? invecchiando?) mi sono accorto che i temi su cui mi piace soffermarmi sono cambiati… Che ne pensi di questo fenomeno? Casualità? O c’è qualcosa di più?
VISCUSI: La risposta che mi viene d’impulso è “ne riparliamo tra quindici anni”! A parte questo, posso affermare con una certa sicurezza che ci sono alcuni temi di base che ricorrono maggiormente nei miei lavori, tra i quali l’identità, il ruolo dell’uomo nel mondo, l’evoluzione intesa in senso biologico e non solo… questi sono gli argomenti che mi affascinano maggiormente e che spesso emergono anche se non sono l’oggetto principale della storia, per cui riesco a individuarli a volte solo a posteriori. Tuttavia ho notato proprio in tempi recenti (diciamo negli ultimi sei mesi o giù di lì) che ci sono altre tematiche che si stanno imponendo alla mia attenzione, come il linguaggio, il rapporto tra le generazioni, la relazione dell’uomo con gli altri animali. Non so se si tratti di una “maturazione”, nel senso che si possa considerare questi temi più “importanti” degli altri, ma sicuramente si può parlare di un’evoluzione, che non ha di per sé connotati qualitativi, è solo un accumulo progressivo di conoscenze ed esperienze. D’altra parte ho notato che anche i miei interessi per le cose da leggere sono mutati rispetto ad alcuni anni fa, e alcuni libri che avevo acquistato con convinzione tempo fa, e per caso erano rimasti ancora da leggere, oggi non ho proprio voglia di iniziare. A questo proposito, mi viene da pensare cosa si possa provare a pubblicare un romanzo sedici anni dopo il precedente, come nel tuo caso. Se è vero che la persona che siamo oggi è diversa da quella di ieri (e in una certa misura, lo è), quanto è diverso l’autore di oggi rispetto a quello di sedici anni fa? Ti riconosci ancora in quello che hai pubblicato tanto tempo fa? Per dire, ti senti di consigliare ai lettori che ti conoscono per Real Mars di andare a recuperare anche i romanzi precedenti?
VIETTI: I cambiamenti che ci riguardano – a meno che non siano dovuti a traumi – sono sempre mediamente molto lenti, quasi impercettibili. Passiamo attraverso le esperienze della nostra vita come per stati di equilibrio successivi. E tutto in qualche modo, piccolo o grande, ci modifica. In pratica è l’equivalente di quel processo che per te stesso tu definisci – giustamente – “evoluzione”. Anche a me piace chiamarlo in questo modo, perché l’ottimista che è in me tende a voler pensare che sia un percorso di miglioramento di noi stessi. E dal punto di vista letterario, sono convinto che la cartina al tornasole siano proprio le letture. Un autore, anche se con la sua voce e la sua personalità, tende sempre a cercare di scrivere (un sottoinsieme di) quello che gli piace leggere. Non potrebbe essere altrimenti. È una semplice questione di gusto e di sensibilità, stili, toni, argomenti, interessi.
VISCUSI: Ma secondo te cosa viene prima? Voglio dire: si scrive quello che si legge, o si legge quello che si scrive? O entrambe le cose derivano da un mutamento degli interessi che si può ricondurre a cause esterne (la maturazione/evoluzione di cui si parlava)?
VIETTI: Immagino che, come ogni nostra esperienza possa concorrere a mutare quello che siamo, tutto può contribuire a modificare i nostri interessi nel senso più ampio del termine e dunque anche il nostro rapporto con la letteratura letta/scritta, anche se nel processo credo che la lettura venga sempre prima, anche solo come bussola di questo processo. Magari non ci dice proprio dove siamo arrivati, ma almeno la direzione che abbiamo preso. Voglio dire, così come sono cambiate (e di molto) le mie letture da 16 anni a questa parte, allo stesso modo è cambiato il mio modo di intendere la scrittura, sia come temi, che come toni, che come stile, che come consapevolezza letteraria. E, se proprio devo dirla tutta, anche come genere. Questo non vuol dire che mi sento di rinnegare i vecchi romanzi. Quando l’anno scorso li ho rieditati per Delos Digital ho affrontato il fantasma del Me Stesso Passato e ne sono uscito indenne. Sul consigliarli invece lascio ai lettori carta bianca. Essendo molto diversi da Real Mars, per esempio molto più con entrambi i piedi dentro il “genere”, chi ha apprezzato molto il mio ultimo lavoro potrebbe ritrovarsi spiazzato. Il consiglio, dunque, è quello di affidarsi alle suggestioni delle quarte di copertina e alla fiducia che in qualche modo si ripone nell’autore. Devo comunque dire che, okay, sedici anni sono ovviamente un’enormità, ma per guardare una propria opera con un po’ di distacco a mio avviso basta molto meno tempo. Per dire, nel tuo caso, Dimenticami Trovami Sognami è uscito nel gennaio 2015, dunque è trascorso ormai un anno e mezzo. Ebbene, anche grazie ai riscontri che avrai senza dubbio avuto dai lettori, in questo periodo, in qualche misura, la tua percezione del romanzo si è modificata? Di cosa ti sei accorto a posteriori (qualcosa che ritieni di avere azzeccato più di ogni altra; che cosa non ti aspettavi del libro, ovvero se c’è qualcosa che i lettori hanno notato, ma che a te era sfuggita – in genere ce n’è sempre almeno una, ma spesso più d’una; qual è la cosa del libro che, se potessi, cambieresti, se c’è)?
VISCUSI: Un particolare che cambierei è il breve accenno al viaggio di Cristoforo Colombo. In quella parte dico “quando Colombo partì per scoprire l’America” e molti hanno obiettato che era partito con obiettivi diversi. Ma il punto è che in realtà non importa, perché è il concetto stesso che sto spiegando che definisce la sua missione! Si tratta semplicemente di una fraseologia forse non del tutto corretta che ha generato qualche confusione, niente di più, ma mi piacerebbe poter rimediare. Un’altra cosa su cui ho ragionato più volte (anche insieme all’editore) era se ampliare la seconda e la terza parte del romanzo, che insieme raggiungono appena la lunghezza della prima parte, in un certo senso “sbilanciando” il tutto. Questa però sembra una preoccupazione più mia (che ho una certa ossessione per la struttura di un testo), visto che nessuno sembra averlo notato, o almeno contestato. Infine, ci sono alcune cose che i lettori hanno notato, tematiche e atmosfere non del tutto esplicite ma che evidentemente emergono: DTS è stato accostato a La moglie dell’uomo che viaggiava nel tempo, o Eternal Sunshine of the Spotless Mind, e trattandosi di opere che mi hanno colpito molto, è possibile che involontariamente qualcosa di esse sia filtrato nel testo, per raggiungere i lettori più ricettivi. Ed è una bella cosa, perché significa che riesco a comunicare qualcosa anche senza dirlo direttamente, che secondo me è uno degli scopi essenziali della narrativa.
VIETTI: Ecco, hai casualmente citato un libro e un film che sono piaciuti moltissimo anche a me (e ti sono profondamente grato per aver citato il film nel suo titolo originale!) e questo ci fa tornare a quello che si diceva poco fa riguardo al fatto che si scrive quello che ci piace leggere (o guardare), perché quello che ci piace leggere (o guardare) definisce quello che siamo. Dunque come definiresti te stesso, in base a questo criterio?
VISCUSI: Non è un’operazione semplice, anche perché deve essere necessariamente fatta in prospettiva. Se vado a ricercare l’elemento in comune tra le opere (libri e film, ma anche musica e videogiochi) che mi hanno colpito e plasmato di più negli ultimi anni, credo che si possa parlare del “cambio di prospettiva”. Mi riferisco a tutte quelle opere in cui viene in qualche modo affermata una realtà, ma in seguito questa è abbattuta e sostituita da un’altra che pure rimane perfettamente coerente. Giusto per fare qualche nome (e mischio volutamente scrittori, registi, game designer, dj) posso citare Christopher Priest, Spike Jonze, James Holden, Jonathan Blow, Neal Stephenson, Dominik Eulberg, Shane Carruth, Ted Chiang, Charlie Kaufman. Il mindfuck che questi riescono a ottenere è quanto di più gratificante si possa trovare, perché da una parte spiazza il lettore/spettatore/giocatore/ascoltatore, togliendogli il terreno sotto i piedi, dall’altra gli offre un appiglio alternativo, anche se spesso non è palese, ma deve essere guadagnato con uno sforzo di partecipazione e interpretazione: solo a quel punto l’esperienza è completa. Quindi, come mi definisce tutto questo? Non ne sono sicuro, ma mi piace pensare di essere qualcuno che non si ferma alla prima impressione, e cerca sempre una strada alternativa per comprendere le cose. O forse, più banalmente, semplicemente un indeciso cronico. Ma a proposito di influenze, il tuo libro è uscito in un momento in cui Marte ha avuto un certo ritorno di popolarità: dalla scoperta dell’acqua al fenomeno di The Martian (libro e film), sembra che il nostro vicino sia tornato ad attirare l’attenzione. Pensi che questo possa contribuire alla diffusione del tuo libro? E ritieni azzeccata la definizione che è stata data di Real Mars come “la risposta europea a The Martian”?
VIETTI: Marte è uno dei catalizzatori prediletti del nostro immaginario e non credo che l’interesse nei suoi confronti sia scemato più di tanto nel corso degli ultimi 70 anni. Certo, ultimamente Marte è davvero sotto i riflettori sia rispetto alle missioni scientifiche che al cinema – è addirittura finito nei tempi di maturità di quest’anno! – e questo in qualche modo potrebbe aiutare la popolarità di Real Mars, anche se obiettivamente non mi illudo che possa influire in maniera determinante sulla sua diffusione, a meno che non si riesca a trovare edizioni fuori dall’Italia. Però in qualche modo è vero che adesso Mars Is The New Black! Quanto alla definizione di Real Mars come “risposta europea a The Martian” la trovo nel contempo molto divertente e interessante. Se andiamo a fare il paragone con il concetto originale (ovvero che Solaris era la risposta sovietica a 2001: Odissea nello spazio), nel caso dei film di Kubrick e Tarkovskij c’era senza dubbio una maggiore affinità che consentiva il paragone, più di quanto non ci sia tra il mio romanzo e quello di Weir. Però è anche vero che Real Mars è (1) davvero completamente europeo, mentre The Martian è senza dubbio totalmente a stelle e strisce e (2) Real Mars ha uno sguardo profondo sulla società di oggi che tradisce una visione molto più europea, rispetto a quella americana molto autoreferenziale e improntata all’autoincensamento. Almeno da questi due punti di vista, la definizione calza. Del resto DTS non potrebbe forse sembrare la risposta italiana a un romanzo di… Philip K. Dick?
VISCUSI: Non mi azzardo a fare paragoni del genere, anche se più di un lettore ha notato delle affinità tra il mio romanzo e alcune opere di Dick, in particolare per alcune tematiche in comune come l’affermazione di una realtà “soggettiva” che ricorre in molti suoi scritti. D’altra parte Dick (insieme ad altri autori) è esplicitamente citato nel romanzo più di una volta, perché mi pareva corretto giocare a carte scoperte. Tuttavia più che una risposta a Dick (o agli altri autori citati), credo che si possa parlare di una storia in cui si cerca di fare una panoramica di molte delle idee che hanno attraversato la narrativa di fantascienza, e non solo. Molte tematiche sono più “universali” (si capisce, il gioco di parole?), e anche se un appassionato di sf può cogliere molte più sfumature, l’obiettivo era di fornire idee stimolanti anche a chi non è un cultore del genere. Che poi, penso sia la stessa cosa che hai fatto tu con Real Mars. Anzi, c’è stato anche chi ha detto che Real Mars non è fantascienza, oppure che è riduttivo definirlo solo fantascienza. Senza addentrarsi nell’impresa impossibile di dare una definizione di fantascienza, in che modo pensi che il romanzo si avvicini o meno al genere?
VIETTI: Real Mars è un romanzo esplicitamente molto diverso dai miei precedenti e chi li ha letti se ne sarà reso conto facilmente, anche se nessuno finora mi ha fatto un raffronto (“eri meglio prima!”, o “sei meglio adesso!”). Personalmente sono della scuola che è riduttivo definire Real Mars solo fantascienza e questo non fa che confermare la diversità con la mia produzione precedente che aveva entrambi i piedi ben saldi dentro al genere. Del resto il libro è nato proprio per situarsi sul confine, per essere un romanzo che fosse leggibile con soddisfazione da qualsiasi tipo di lettore. E anche la copertina, totalmente slegata dall’immaginario fantascientifico, è stata ideata con lo specifico intento di dare questa suggestione. Ciò che avvicina Real Mars al genere fantascientifico, infatti, non sta tanto nel quadro complessivo o nell’idea di base, bensì in certe tessere specifiche che contribuiscono a formare il mosaico generale, dettagli, particolari, come piccole macro su una realtà in vertiginosa evoluzione verso uno dei tanti futuri possibili. A dispetto del tema del “viaggio spaziale” infatti sono convinto che abbia ragione chi sostiene che si tratta di fantascienza sociologica e forse, in effetti, non a caso la fantascienza sociologica è il sottogenere della fantascienza che da sempre è stato – ed è – più vicino al mainstream e apprezzato anche dal pubblico dei non appassionati. E siccome Zona 42 ha messo proprio questa caratteristica tra gli scopi espliciti della sua missione editoriale, dimostrare le capacità letterarie della fantascienza anche a chi non la frequenta abitualmente (o addirittura chi la rifugge), mi piacerebbe sapere da te come vedi questo aspetto relativamente a DTS e ai riscontri che hai avuto dal pubblico non strettamente di genere.
VISCUSI: Come dicevo prima, l’obiettivo di non rivolgermi esclusivamente alla nicchia della fantascienza (e non lo dico in termini dispregiativi, mi ci metto dentro anch’io!) era chiaro fin dall’inizio. E il libro effettivamente è finito nelle mani di persone che con la sf hanno poco da spartire, con reazioni principalmente di sorpresa, del tipo “Ah, ma questa è fantascienza?” In molti casi infatti la percezione presso il “grande pubblico” di cosa è la fantascienza deriva soprattutto dal cinema, e quindi si pensa quasi esclusivamente a blockbuster fracassoni, visivamente impressionanti, ma piuttosto vuoti di contenuti… godibilissimi, per carità, ma certo non rappresentativi del potere speculativo della fantascienza, che è la sua caratteristica più importante (e non farmi iniziare a parlare di Star Wars!). Quindi queste persone si trovano spiazzate a scoprire che la fantascienza è un modo di usare la narrativa per investigare idee anche piuttosto estreme sul mondo che ci circonda. Devo anzi ammettere che delle varie presentazioni che abbiamo fatto per DTS, le più vivaci sono state quelle dove il pubblico era pressoché digiuno di fantascienza, e c’è stato quindi modo di stimolare la loro curiosità per il genere. In retrospettiva penso che forse qualche nuovo lettore di sf siamo riusciti a farlo!
VIETTI: Ed è molto interessante a questo punto notare la diversità degli effetti a Real Mars dei miei non-lettori di fantascienza, che mediamente hanno tutti la stessa reazione: alzano gli occhi, mi guardano fissi e, dopo un istante di silenzio, come a cercare di stemperare una perplessità come un grumo di farina nell’impasto di una torta, sbottano: “Ma questa non è fantascienza!” Insomma, non si sorprendono di quello che è, ma di quello che non è, ovvero di quello che credono che non sia, perché davvero non è, o perché forse – come dicevi tu – si sono fatti un’idea sbagliata di quello che ritengono che sia (la fantascienza). Queste reazioni tuttavia non mi sorprendono. L’impressione mia è che è un po’ come se i nostri due romanzi si trovassero ai lati opposti dello stesso confine del genere, il tuo sul confine interno, il mio sul confine esterno e, solo per questo motivo, riuscissero a suscitare reazioni opposte dai lettori non abituati al genere stesso (i lettori di fantascienza li classificheranno sempre entrambi come di fantascienza senza alcun tentennamento). Proprio per questo motivo credo che entrambi i libri diano una bella immagine del genere e delle sue possibilità e forse anche del fatto che ormai non ci sarebbe neanche più tanto bisogno di uno steccato chiamato “fantascienza”, nella misura in cui tutti i lettori là fuori sono più pronti di quanto pensiamo a leggere libri di questo genere, senza preclusioni o preconcetti, a patto che riusciamo a dargli buoni libri, libri che emozionino, libri ambiziosi, libri che abbiano qualcosa di importante da dire e che lo sappiano dire bene. Non può essere questo forse il futuro – roseo? – della fantascienza (non solo italiana)?
VISCUSI: Io leggo fantascienza da quando avevo dodici anni ed è da allora che sento dire che la fantascienza è morta, in più a quanto pare lo stesso si diceva già venti anni prima. A complicare le cose c’è il fatto che oggi viviamo in un mondo così complesso a livello tecnologico che il sentore comune è che la realtà abbia superato la fantascienza, e che quindi quest’ultima abbia cessato la sua utilità. Anche questo è un punto di vista limitato, perché tratta la sf come un vate la cui funzione è quella di prevedere quando compariranno le auto volanti. Se ci si affranca dall’idea “profetica” della fantascienza (che comunque è una funzione che rimane, ma non è l’unica né la più importante), e si riconosce che molte delle opere di genere cercano di dirci più sul nostro mondo che sugli esopianeti, sul presente piuttosto che sul futuro, su noi stessi più che sugli alieni, allora forse ci si rende conto che non c’è davvero una differenza così marcata tra la fantascienza e il cosiddetto “mainstream”. Cambiano gli strumenti e gli assiomi di base, ma l’obiettivo finale è sempre lo stesso, e in fondo è quello di qualunque forma di narrativa, o se proprio vogliamo estendere il discorso, qualunque forma di “arte”. Per cui credo che il futuro della letteratura che affronta il futuro possa essere roseo, se non ci si affanna a voler costringere all’interno di paletti da una parte le opere, dall’altra il pubblico. Lo sforzo quindi deve essere compiuto da entrambe le parti, e non è certo facile, perché il bisogno di identificazione è forte (basta vedere le frequenti guerre tra fandom diversi). Ma le prospettive a mio avviso sono buone, perché la complessità crescente del mondo spinge le persone a cercare chiavi di interpretazione sempre più vicine a quelle offerte dalla fantascienza, ed è una tendenza che mi sembra già vedere, in particolare per quanto riguarda cinema e serie tv. Quindi a chi pensa di poter fare a meno della fantascienza non rimane che rassegnarsi: resistance is futile.
Il viaggio in macchina non è ancora finito, ma con voi ci sembra giusto fermarci qui, almeno per ora, un po’ perché vi abbiamo già tenuto occupati parecchio e un po’ perché il finale ci sembra degno di essere tale, che renda compimento e rotondità alla nostra chiacchierata. Ringraziandovi di essere arrivati fin qui, speriamo che vi abbia interessato. Per il resto noi, fuori da queste righe, continueremo a chiacchierare e voi, se vorrete, potrete continuare a immaginarci e a immaginare come potrebbe andare avanti o, meglio ancora, immaginare di unirvi a noi e al nostro discorso, a noi piacerebbe molto.
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